Credo sia impossibile riuscire a parlare di cultura militare di
Bisanzio senza nominare una delle scoperte belliche più longeve della
storia dell'impero, l'arco bizantino: il suo utilizzo è stato certo fra i
più variegati e fra i più notevoli dal punto di vista del successo
strategico. E' bene tuttavia chiarire alcuni punti fondamentali, che mi
sforzerò di rendere il più possibile accessibile al maggior numero di
persone, specie ai non “addetti ai lavori”. Premetto che questo articolo
sarà sprovvisto delle indispensabili note poiché si tratta di un saggio
frutto di alcune mie ricerche coeve alla tesi di laurea ma non
organizzate organicamente; tuttavia se si desiderasse ottenere dei
chiarimenti ad alcune mie puntuali affermazioni, sarò felice di fornire
tutti i riferimenti bibliografici nello specifico.
Al di là delle
considerazioni che si possono fare a posteriori sullo sviluppo e la
decadenza dell'arco (soppiantato unicamente dalla balestra ma
soprattutto dalle armi da fuoco), è possibile fissare alcuni dati certi.
Primo : quello che noi chiamiamo “Arco di tipo bizantino” non è
che l'ultima evoluzione nella storia di questo importante mezzo,
secondo solo all'avvento della polvere da sparo. Per quasi tutto il
tempo in cui l'impero di Costantinopoli mantenne la propria sovranità,
militare e culturale, sulle altre popolazioni, l'arco bizantino
rappresentò l'arma più innovativa in campo bellico. Anche se i romani
d'oriente non furono i primi a farne uso in battaglia, furono certamente
coloro che riuscirono a portare questo tipo di combattimento ai suoi
massimi livelli, mescolando sapientemente cavalleria e abilità
nell'utilizzo di questo strumento. Sull'arco e sulle tecniche da
addestramento e da battaglia, non esistono manuali specifici per l'epoca
bizantina: ad esso vengono dedicate diverse pagine, ma sempre
all'interno di manuali d'arte bellica, che non si occupano unicamente di
quest'arma da offensiva, bensì analizzano i vari aspetti della
conduzione della guerra (è il caso dello Strategikon, come anche dei tre
trattati analizzati da Dennis). L'unica eccezione in tal senso è
rappresentata da un trattato anonimo di cui parlerò a breve. I motivi di
questa evidente mancanza possono forse essere spiegati meglio dalle
parole del Toxofilus, un'opera pubblicata nel 1545 da Roger Ascham in
Inghilterra con il patrocinio del re Enrico VIII. Ascham si rivolge agli
scrittori del passato, alla ricerca di precedenti illustri che
nobilitino il tiro con l'arco, ma deve lamentare, come dicevamo, la
mancanza di opere esaustive in merito:
Il motivo per il quale nessuno finora ha scritto un libro sul tiro
con l'arco […] credo che sia il seguente: coloro che sono più esperti
nel tiro e che lo conoscono bene, non sono istruiti; coloro che sono
istruiti, invece, sono poco esperti nel tiro, e sono ignoranti in tale
campo, in tal modo pochi sono stati finora in grado di scrivere su
questo argomento.
E ancora lo stesso autore così spiega la mancanza di specifici trattati latini sulla materia:
Tra i cittadini romani, che superavano tutti gli altri in virtù,
nobiltà e potenza, una scarsa menzione è fatta del tiro con l'arco, non
perché sia stato poco usato tra loro, ma piuttosto perché esso era così
necessario e comune, che sarebbe stato ritenuto cosa inutile o superflua
per ognuno; così come uno che descriva un grande banchetto […] non
reputi importante nominare il pane, sebbene esso sia l'ingrediente più
comune e necessario.
L'arco non fu un'invenzione romana. I romani stessi si accorsero a
loro spese delle potenzialità dell'arma e della inadeguatezza della
vecchia concezione della legione in quella che viene giustamente
ricordata come la prima disfatta dell'impero romano, quella di Crasso a
Carre (53 a. C.) contro i Parti, veri “inventori” dell'arco. In
quell'occasione si riporta che i legionari vennero letteralmente
inchiodati al suolo dalle frecce dei nemici della cavalleria catafratta
(corazzata), abili arcieri sia in fase offensiva che difensiva. Ad
un'analisi approfondita non sfuggirà poi che la tattica dei Parti verrà
imitata e perfezionata dai Romani, ma mantenuta nei tratti essenziali
pressoché identica. Scrive Plutarco in proposito:
I Parti avevano archi potenti e grandi, curvi in modo da scagliare la
freccia con impeto e i colpi sibilavano con inaudita violenza […]. I
Parti scagliano dardi anche in fuga e lo sanno fare meglio di qualunque
altro popolo, dopo gli Sciti […]. Le frecce conficcate nelle membra si
spezzavano dentro le ferite […]. Quando Publio esortò i Romani a
lanciarsi sui catafratti, essi gli mostrarono le mani inchiodate agli
scudi, e i piedi confitti al suolo da una freccia che li passava da
parte a parte.
La legione si trovava per la prima volta in seria difficoltà. A tale
inadeguatezza si cercò di sopperire con la creazione di speciali corpi
ausiliari (auxilia), arruolati in Tracia e nelle province orientali, tra
cui spiccavano le formazioni di arcieri a piedi e a cavallo (equites
sagittarii). Questo fu il primo passo di un processo che vide gli
imperatori e i generali susseguirsi nel tentativo di “modernizzare” (o
più che altro adattare) l'esercito romano alla nuova prassi bellica,
contro cui si erano tristemente scontrati. Tale scelta si volse
inevitabilmente verso un perfezionamento delle tecniche d'arco da
sfruttare in battaglia: gli strateghi bizantini fondarono
definitivamente la forza delle loro armi sulla cavalleria sagittaria
reclutata fra le genti dell'impero. La consacrazione ufficiale si ebbe
sotto il regno di Giustiniano, dove grazie alle guerre di riconquista,
l'impero di Bisanzio raggiunse la sua massima espansione territoriale.
Nel frattempo le truppe venivano progressivamente addestrate all'uso
dell'arco, tanto che, alla fine, il semplice fante poteva diventare un
esperto arciere a seconda delle necessità. I Bizantini mutuarono dai
Persiani la cavalleria catafratta (cavaliere e cavallo ricoperti di
corazza), mentre dagli Unni e dagli Avari l'impiego dell'arco composito e
le tecniche di tiro dalla sella. In questo, le popolazioni citate erano
avvezzi in virtù dell'invenzione della staffa, strumento sconosciuto al
mondo greco-romano, che consentiva all'arciere di mantenersi ben saldo
in sella e di tirare da cavallo anche lanciato al galoppo. Il connubio
arco-cavallo dei popoli nomadi divenne l'arma per eccellenza
dell'esercito bizantino. Anche gli arcieri appiedati svolsero comunque
un ruolo importante nell'apparato bellico di Bisanzio: nella battaglia
di Busta Gallorum (Gualdo Tadino) la cavalleria gota fu attirata in un
sacca circondata da 4000 arcieri di fanteria e decimata dalle frecce.
Secondo : l'arco bizantino era diverso strutturalmente
dall'arma che stava nelle mani dei suoi primi utilizzatori. E' doveroso
aggiungere che gli eserciti di Belisario prima e Narsete poi, ebbero la
meglio non solo sul fronte orientale, tradizionalmente meno avvezzo
all'uso dell'arco e alle imboscate, ma anche sul fronte orientale contro
i Persiani, i cui arcieri erano considerati i più forti al mondo in
quanto a rapidità di tiro, ma il cui limite, come riportato da Procopio,
era di essere dotati di archi meno potenti. L'arco usato dai cavalieri
delle steppe, adottato poi dagli arcieri bizantini, era costruito in
maniera particolare: si trattava infatti dell'arco composito di
derivazione scitica. Ciò comportava che l'arma avesse un'anima in legno
ricoperta al suo interno (detto belly o ventre) da lamine di corno
resistenti alla compressione, e sulla parte esterna (detta back o dorso)
da tendini di animale che garantivano la resistenza alla trazione e ne
aumentavano sensibilmente l'efficacia. Secondo le fonti antiche e le
rare rappresentazioni iconografiche la forma dell'arco scitico
somigliava a un sigma greco, con la linea dell'incurvatura anch'essa
riflessa. Il principio generale di quest'arma consisteva nell'assemblare
i materiali in modo da ottenere una controcurvatura riflessa, che in
fase di armamento o caricamento (cioè nella pratica quando si montava la
corda), assumeva andamento opposto. Gli archi asiatici erano nel
complesso più efficienti di quelli dell'Europa centro-settentrionale
perché non venivano costruiti interamente in legno, e in virtù di tale
espediente potevano far conto sull'integrazione di potenza dato dalla
controcurvatura, cosa che un arco di legno non poteva fare. Pur mancando
buona parte dei reperti dell'epoca, le fonti letterarie e iconografiche
ci permettono di ricostruire un quadro abbastanza chiaro della
struttura e della forma che avrebbe dovuto avere l'arco specificatamente
bizantino: forma riflessa con orecchie rigide, come negli archi mongoli
e turchi; impugnatura dritta, rigida, anch'essa riflessa come nell'arco
scitico; lunghezza di 120 cm circa; frecce lunghe all'incirca 70 cm. La
gittata massima poteva coprire una distanza approssimativa di 250 metri
con una velocità di 170 fps, quasi paragonabile a quella dei moderni
archi ricurvi. Sul motivo per cui l'arco composito si sia sviluppato
maggiormente in Asia sono state fatte diverse ipotesi, legate
soprattutto alla conformazione del territorio; in realtà l'unica
certezza sembra essere che le popolazioni asiatiche hanno preferito
puntare su un arma corta ben maneggevole a cavallo e capace di grandi
prestazioni. L'utilizzo del cavallo in tal senso non ha pregiudicato la
“scelta” delle tribù nomadi, in quanto in Europa, pur con le stesse
premesse, si è preferito puntare sulla cavalleria armata pesantemente.
Terzo : Alla fase di addestramento per un uso corretto e
micidiale dell'arco veniva generalmente dedicato molto tempo, che
variava a seconda del reparto di appartenenza. E' risaputo che
l'esercito regolare obbligava il soldato a impratichirsi con esercizi
giornalieri nell'utilizzo di tutte le armi, compreso, ovviamente, anche
l'arco; è tuttavia tra i bucellarii che si riscontra il periodo di tempo
più lungo di esercizio costante dedicato all'uso di quest'arma (si
stima sui due o tre anni), tale da consentire quell'abilità nel suo
impiego che è tipico dell'esercito bizantino. Ciò è dovuto probabilmente
allo scopo di fare del soldato non solo un abile arciere ma anche un
abile “arciere a cavallo”. Come ben spiegato nel Peri toxeias, trattato
militare sull'uso dell'arco, si possono distinguere diversi tipi di
aggancio. Essi si distinguono in primario, con indice e pollice, adatto
ad archi semplici e leggeri; secondario, dove all'indice e al pollice si
unisce il medio; mediterraneo, con indice, medio e anulare, che poi è
quello tuttora in uso fra i tiratori; mongolo o orientale con indice e
pollice. Nel trattato sono presenti i due sistemi menzionati dall'autore
, quello mediterraneo e quello orientale. Quello orientale prevedeva
generalmente l'utilizzo di un anello da pollice per agganciare la corda.
Per gli arcieri bizantini non è chiaro se al variare della presa
variasse la disposizione della freccia rispetto all'arco: nel
tradizionale sistema orientale, la freccia veniva esposta sul lato
esterno (quello destro se la mano che impugna l'arco è la sinistra)
dell'arco, contrariamente all'aggancio mediterraneo, dove essa invece
passava sul lato interno (nell'esempio il sinistro). L'aggancio
orientale produceva di fatto un tiro più potente, in quanto poteva
disporre di un maggiore allungo: infatti la minore superficie di
contatto tra le dita e la corda permetteva da un lato una più accurata
angolazione della corda, con un conseguente ancoraggio lungo, dall'altra
interferiva meno con la corda in fase di rilascio, consentendo uno
stacco più netto e pulito. Il tiro “obliquo”, citato nel testo, va
interpretato piuttosto come tiro a parabola.
Quarto : L'impiego bellico dell'arco varia a seconda
dell'epoca. Contro la cavalleria di solito si usava combattere con la
fanteria in questo modo: la prima e la seconda linea tirano
continuamente con l'arco contro le zampe dei cavalli, tutti gli altri
tiravano alto a parabola verso i nemici, per meglio ferire, dato che
essi non possono proteggere né loro, né i loro cavalli con gli scudi.
Leone avverte però che le formazioni non devono essere troppo profonde,
per evitare che il tiro a parabola degli arcieri colpisca i commilitoni.
Onosandro, invece, osserva che è più efficace il tiro degli arcieri
schierati davanti alle proprie fila di quello effettuato da dietro a
parabola: nel primo caso le frecce vengono scagliate dritte come ad un
bersaglio, mentre nel secondo le frecce devono essere tirate in aria per
scavalcare le proprie file, perciò ricadono sul nemico con poca forza
d'impatto. Le notizie sull'uso delle frecce avvelenate negli eserciti
tardo antichi e bizantini sono frammentarie e spesso si riferiscono solo
al loro impiego da parte del nemico. La ragione va ricercata nel
ripudio morale di tale pratica, ma soprattutto nel fatto che gli stessi
arcieri nel maneggiarle potevano ferirsi accidentalmente. Diverso il
caso delle frecce incendiarie (pyrphorai sagittai), che invece venivano
largamente impiegate dai Bizantini. Una precisa testimonianza in merito,
risalente sempre al periodo tardo antico, ci è fornita da Ammiano:
I dardi incendiari, poi, hanno la forma seguente: una freccia di
canna è ricoperta fra la punta e l'asta di molteplici fasce di ferro. E'
simile per forma alla conocchia con cui le donne filano il filo e ha
l'interno scavato sottilmente. E' fornita di parecchie aperture e nella
cavità viene posto il fuoco con materia incendiaria. Se viene lanciata
lentamente da un arco non troppo teso, perché con un lancio veloce si
spegne, si conficca in qualche parte, brucia ostinatamente e se viene
bagnata con acqua, provoca un incendio più violento. Non c'è modo di
placarlo, tranne se vi si getta sopra della polvere […].
Del resto i bizantini erano veri maestri nella preparazione delle
giuste dosi di miscele incendiarie da scagliare con vari ordigni
meccanici. Le fonti letterarie non tacciono nemmeno sui modi per evitare
che le frecce dei nemici colpiscano i difensori delle mura. Flavio
Renato Vegezio, autore del IV-V secolo, nel suo De re militari così si
esprime a tal proposito:
Si è soliti temere che la moltitudine degli arcieri, dopo aver
atterrito i difensori delle mura, innalzate le scale , occupi le mura.
Onde evitare ciò, bisogna che nella città ci siano corazze e scudi in
abbondanza. Inoltre sui parapetti vanno innalzati dei teli di lana
grossa disposti a doppio, che arrestino l'impeto delle frecce; poiché i
dardi non facilmente attraversano ciò che cede e fluttua […].
I teli di lana, detti cilicia, si possono considerare i progenitori
di quelle cappe di lana consigliate dallo Strategikon. Si basavano sul
principio per cui, opponendo un ostacolo fluttuante alle frecce, si
otteneva un effetto frenante uguale a quello fornito da un supporto
rigido, conservando allo stesso tempo il vantaggio di un facile
montaggio e smontaggio dell'attrezzo. Rispetto all'epoca classica, i
generali bizantini introducono una nuova strategia per quanto riguarda
gli arcieri: essi non verranno più schierati davanti (o ai lati) della
legione (o della falange), bensì saranno dislocati dietro (o in mezzo)
allo schieramento di fanteria (o cavalleria), in una sorta di simbiosi
col resto dei reparti armati. Tale cambiamento è sintomatico del fatto
che gli arcieri ricoprono un ruolo che non è più solo di disturbo al
nemico durante l'assalto della legione, ma sono parte integrante e
attiva dell'esercito. Nel passato infatti, quando venivano schierati
davanti, attaccavano scaricando i loro proiettili, ritirandosi poi
dietro le proprie fila; se posti ai lati, svolgevano una funzione di
disturbo, mentre il grosso dell'attacco veniva portato avanti dalla
legione. Gli arcieri bizantini, invece, erano integrati perfettamente
nello schieramento e attaccavano o si ritiravano insieme agli altri
soldati: nell'esercito imperiale non esistevano unità autonome di
arcieri, ma solo arcieri che facevano parte di un reparto armato (in
tutto e per tutto). Questo fatto tuttavia impone di riflettere sulla
disposizione in campo delle truppe bizantine. Dal momento in cui venne
introdotta questa “novità”, le fila dei ranghi dovettero per forza non
essere troppo profonde: in caso contrario le frecce del fuoco amico
avrebbero rischiato di colpire le prime truppe impegnate in
combattimento. Calcoli moderni hanno permesso di fissare la gittata
massima degli arcieri sui 280 m, tenendo presente che è difficile
separare, in una stima così mancante di dati storici oggettivi, il “tiro
utile” dal “tiro teso”. In entrambi i casi, infatti il tiro descriveva
sempre una parabola, il cui angolo poteva variare da 0° a 45°, a seconda
della distanza del bersaglio. Possiamo soltanto individuare un punto
nel quale l'alzo del braccio viene a coincidere perfettamente con il
bersaglio:ciò si verifica di solito a una distanza di 50-60 m. Quando il
bersaglio si trova oltre tale distanza, il braccio dell'arco deve
essere alzato al disopra della linea di mira occhio-bersaglio, con
conseguenti problemi di calcolo della traiettoria. A tutti i soldati
veniva insegnato a tirare con l'arco nei due modi, al fine di saperlo
poi padroneggiare con successo in battaglia. Da notare che tra
l'equipaggiamento sono citate le staffe, e che i soldati di cavalleria
sono denominati cabalarii (non cataphractoi). La cavalleria leggera,
principalmente armata di arco, è invece fornita soprattutto da alleati
(Symmachoi) o altre truppe irregolari straniere (Ethnikoi), soprattutto
Unni e Mori.
articolo di Davide Caceffo - da http://www.imperobizantino.it/node/2352
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